La poetica di un non finito

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L’ultima opera di Alfredo Savini è ‘Lavandaie’, un quadro non-finito che si pone, agli occhi di chi guarda, come un’emblematica fine della poetica dell’artista. Si tratta di un ultimo, grande tributo ai lavoratori del Garda: quella gente del popolo che il pittore tanto aveva ammirato per l’intima autenticità trasmessa. Le figure che Alfredo rappresentò nel corso della sua vita furono concrete: persone in carne ed ossa, dai vestiti umili e dalla vita scandita da una ciclicità naturale. Una fede intima nel mondo che scaturisce dall’essenziale: le donne qui rappresentate non ne fanno eccezione. La cosa che più colpisce di questo dipinto è il suo riuscire a comunicare tutto senza neppure esser stato completato. Per capire più a fondo la forza espressiva di questa tela, però, è importante partire dai motivi della sua incompiutezza: la morte dell’arista, avvenuta a soli 56 anni. La ragione della prematura scomparsa dell’ultimo erede artistico della famiglia, va collocata a circa tredici mesi prima, con la morte di Adonella (figlia di Alfredo di soli 12 anni). Fu un lutto insuperabile per lui: il suo amore paterno è stato a lungo descritto da Laura, figlia primogenita, come un sentimento “sconfinato”, impresso su ogni tela a loro dedicata. Gli anni di quella che deve essere stata una magnifica serenità familiare sono tutt’ora visibili. Sono numerose, infatti, le testimonianze del loro vissuto: fotografie e tele, realizzate dallo stesso Alfredo, hanno la forza di narrare ancora oggi le eterne domeniche vissute al lago, in cui tutto è fermo e magico allo stesso tempo. Ciò deve far comprendere ancora di più quale dovesse essere l’animo dell’artista nel momento del suo ultimo quadro: “gli si spense completamente il sorriso sul volto: egli, che amava tanto la vita, desiderò morire perché Adonella non fosse sola”. [1]

È senza dubbio impossibile esprimere a parole (o su tela) cosa significhi la perdita di un figlio. Eppure, ciò che ad oggi colpisce di questo quadro, è vedere come il pennello dell’artista renda la sua interiorità: non c’è rabbia nel modo in cui l’uomo guarda il mondo che lo circonda, né tantomeno una giustificabile delusione per una morte che ha sfidato ogni legge di giustizia naturale. È un cielo terso e luminoso di un’incomprensibile pace, soprattutto se lo si attribuisce all’animo lacerato di un padre in lutto. Ciò che più commuove di questa scena è la sensazione che trasmette: un’attesa contemplativa. Le due figure, pur ritratte nella loro più intima naturalezza, sono immerse in un’atmosfera celestiale, creata da un’acqua che si rende specchio di cielo, ed un’atmosfera molle, sospesa, capace di giungere ad una dimensione che quasi non sembra terrestre.  Le donne, intente a vivere il loro laborioso quotidiano, non paiono neppure consapevoli di quanta grazia e bellezza esse siano in grado di spigionare: sono angeli vestiti di stracci.

Alfredo Savini, Lavandaie, 1924 olio su tela 110 x 92,5 cm Fondazione Cariverona

 

C’è un’intrinseca fede nell’occhio di chi ha ritratto questa scena: un’inconsapevole attesa di chi ha contemplato per tanto a lungo il mondo e che ora è pronto a raggiungere un’altra dimensione, nella speranza di ricongiungersi con chi ha tanto amato.

Nel mondo dell’arte sono molti gli esempi di opere non finite. A volte il ‘non finito’ è una vera e propria scelta dell’artista, spesso a cavallo di quella riflessione michelangiolesca per cui l’arte è “quella che si fa per forza di levare”. [2] Secondo questa concezione, infatti, l’arte è già impressa nella pietra e sta all’artista il compito di lasciar che essa esca fuori. Si tratta di una vera e propria concezione spirituale catartica: l’artista libera ciò che è incastonato nel duro marmo e dà forma ad una bellezza già insita nel mondo, che attende solo una sapiente mano capace di portarla alla luce. Alla volta di questa concezione artistica, Michelangelo fu un genio titanico, capace di conferire a ciascuna delle sue opere l’eternità.

Anche la mano che produsse un’arte immortale fu però destinata a spegnersi (ciò avvenne a Roma, il 18 febbraio 1564). Anche di questo grande artista oggi rimane un’ultima opera, posta a chiusura di un ciclo di vita consacrato alla propria espressione: la Pietà Rondanini. Stando ad alcune testimonianze, Michelangelo lavorò a quest’opera fino a pochi giorni prima di morire. [3] La Pietà Rondanini sembra il riflesso degli ultimi tormenti spirituali dell’artista, forse dedito alla ricerca di un’ennesima, conclusiva magnificenza (questa volta, però, apparentemente inesprimibile). Il Buonarroti non sembra in grado di accettare la morte, ed imprime su marmo l’ingiusto atto di una madre chiamata a deporre suo figlio (il tema della Pietà è infatti spesso rappresentato come un ultimo, disperato attaccamento alla vita) [4]. L’artista ritrae la Vergine nel tentativo di trattenere il figlio morente tra le sue braccia. I corpi sono ricavati da un unico blocco, e in esso si fondono: madre e figlio muoiono nello stesso istante, l’uno come vittima sacrificale, l’altra nel suo immenso dolore.

Michelangelo, Pietà Rondanini – Castello Sforzesco, Milano

Michelangelo fu l’emblema di un genio innato e riconosciuto da tutti, che rincorse per tutta la sua vita la perfezione: una continua ricerca del bello ideale come emblema della perfezione universale. Ma che succede quando si arriva a comprendere come tale bello ideale non sia altro che la maschera di un’inafferrabile illusione?

Questa concezione fu quella condivisa da molti artisti nel corso dell’800: contrapponendosi a qualsiasi canone accademico consolidato, molti di questi iniziarono a ritrarre un mondo tangibile, reale, che prescindesse da qualsiasi idealizzazione.  I pittori realisti iniziarono così a rappresentare una realtà tutta concreta, fedele a ciò che l’essere umano vive nel suo quotidiano. Sulla base di questa nuova ottica, non può non cambiare anche il concetto di morte: in virtù di questa ciclicità naturalistica, il mondo non è altro che un continuo rinnovarsi. La vita è così il frutto di un inarrestabile processo di trasformazione, il perpetuarsi del binomio vita-morte. Quest’ottica è l’unica visione che permette di godere davvero dell’esistenza, in quanto non se ne tema la fine.

Alfredo Savini – Il rosario, s.d. olio su tela 82 x 60 cm collezione privata

Alfredo Savini- Bambini (Bozzetto da “I naufraghi”), 1894 olio su tela 24 x 15 cm collezione privata [Concorso per il Pensionato Artistico Nazionale, 1894]

Alfredo Savini fu colui che dipinse le mani ruvide di una contadina nell’atto di stringere un rosario; ma anche colui che ritrasse i visi stravolti dei superstiti di un naufragio (tra loro vi sono due orfani che non videro neppure i propri genitori tornare: l’artista li ha raffigurati nell’atto di stringersi in una muta consapevolezza di quanta la vita possa essere indifferente, verso i destini di molti). Eppure, Alfredo fu anche colui che ritrasse tre vecchi pescatori e le loro rughe: emblema dei tanti anni di esistenza trascorsa sotto i raggi del sole, ma con gli occhi fissi sull’immensità dell’acqua blu. Infine, Alfredo Savini fu colui che dipinse queste giovani lavandaie: l’ultima, muta contemplazione, di una semplicità che eternizza la vita.

 

Giusi Petrillo

Laureanda triennale in Lettere Moderne presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, appassionata di storia dell’arte e letteratura

 

Bibliografia:

[1] Laura Savini, archivio Diocesano di Verona.

[2] Michelangelo Buonarroti, lettera a Benedetto Varchi.

[3] Daniele da Volterra, nelle due lettere indirizzate a Giorgio Vasari e Leonardo Buonarroti.

[4] Matteo Scabeni: “Lo spirito e l’anima restano? Abel Ferrara e Gabriele Tinti rileggono la Pietà Rondanini”.

Sinigaglia Francesca & Ilaria Chia (a cura di), Dinastia Savini, catalogo della mostra a Museo Ottocento Bologna, Bologna, 18 ottobre 2024 – 3 marzo 2025, Museo Ottocento Bologna, 2024.