La Natura, negli occhi di Giacomo e Alfredo Savini

Quale è il ruolo dell’uomo all’interno della natura? Quali poteri abbiamo su di essa? Quali emozioni suscita la visione di un ampio paesaggio? Queste sono alcune delle domande che animarono il dibattito artistico della metà del Settecento. Artisti di ogni genere, poeti, musicisti, scrittori, tentarono di fornire le loro risposte immergendosi nell’osservazione della natura. Gli esiti furono tra i più disparati. Alcuni ricercarono effetti strani e sconvolgenti, come coloro che poterono osservare le eruzioni del Vesuvio, particolarmente attivo negli anni Ottanta del Settecento. L’entusiastico Michael Wutky si ritrae con il suo album di schizzi sulla bocca di questo scenario infernale, con le braccia all’indietro in estasi, mentre la sua guida scappa (1780). Lo spettatore si sente inquietato davanti ad un simile spettacolo sulfureo di nubi e lava, rassomigliante al disastro di Pompei del 79 a.C. 

Michael Wutky, Eruzione Vulcanica (1780, olio su tela, 139 x 123 cm, Kunstmuseum Basilea)

Alcuni scelsero di rifarsi direttamente alle forme del mondo classico. Un nobile richiamo alla storia antica è visibile in Pierre-Henri de Valenciennes. Le immagini mediterranee, raccolte durante l’educazione artistica in Italia, vengono mescolate alle forme lineari e composte del mondo classico. Nelle sue vedute tutto è dimensionato secondo il controllo razionale dell’uomo, le cui opere -templi, fontane, statue- misurano serenamente volumi rettangolari che guidano l’occhio sul resto dell’ampio paesaggio. Sembra la rinascita della classicità all’interno di un mondo arcadico, un sogno irraggiungibile, lontano nel tempo. Inserendo in questo scenario alcune piccole figure umane, vestite in abiti classici, Valencienne indaga il tema del rapporto tra l’opera umana e l’onnipotenza della natura e del tempo. 

Sembra fare lo stesso Giacomo Savini (1768/1842) in Mollezza e in Paesaggio con tempio (s.d, acquerello su carta, 26x31cm, Collezione privata): una natura incolta ospita personaggi e architetture classiche che la rendono eterna, immobile.

Giacomo Savini, Mollezza (s.d., tempera su carta, 26 x 36 cm, collezione privata)

L’essenza sospesa di queste opere, appartenenti alla prima parte della sua produzione, viene ereditata dal pennello del maestro Martinelli. Egli formò al gusto neoclassico alcuni dei più importanti pittori felsinei dell’800. Martinelli introdusse Savini al genere delle stanze paese, che lo renderà famoso. Savini deve molto a Martinelli, ma nel tempo il suo stile prenderà vie più naturalistiche e sincere. Giacomo aveva una grande passione per la natura, di cui catturava gli scorci più inconsueti e secondari. Questi, attraverso il suo occhio, venivano nobilitati ed acquisivano la possibilità di entrare in opere complete. Si trova qui la grande novità di Giacomo Savini. 

Lo stesso amore per le piccole cose e la semplicità della natura lega la produzione di Giacomo a quella del pronipote Alfredo Savini (1868/1924). A riguardo la figlia Laura ricorda: <<Natura e interiorità umana – mai questa sintesi fu dissociata nel pensiero di mio padre che esplicò se stesso attraverso un’arte indagatrice di profonde verità ed aliene da qualsiasi forma patologica dello spirito>>. E’ evidente come in Alfredo la natura diventi un veicolo per alleviare l’animo e dare forma alle emozioni che lo sorreggono. Come la sua sensibilità verso il mondo infantile ed il grande amore per le sue figlie, che si sono riversati nella serie Sole e Ombra. I dipinti dedicati ai raccolti della terra mostrano un attento studio dei giochi della luce, che si riflette sul corpo di due tenere bambine. Le loro pose rilassate sembrano seguire il movimento disordinato dei fiori di campo su cui si poggiano, quasi come se fossero anch’esse elementi naturali. La varietà di colori e forme delle piante che le circondano indica la rilevanza data all’oggetto naturale. Lo conferma il fatto che l’artista volle ampliare la tela in corso d’opera, per poter dare più spazio al tema. Per realizzare Bambina con pecore (1897) e La raccolta delle albicocche (1900) Savini si valse di riferimenti fotografici. 


Alfredo Savini, La Raccolta delle Albicocche, serie Sole e Ombra
(1900, olio su tela, 49 x 65 cm, Museo Ottocento Bologna)

La fotografia era diventata, per molti artisti, un mezzo per esprimere al meglio lo stile realista. Lo stesso Alfredo Savini viene ricordato vagare per le campagne, in cerca di soggetti, accompagnato dalla sua macchina fotografica. Specialmente in seguito al trasferimento a Verona, dove gli venne assegnato il corso di Pittura dell’Accademia Cignaroli. Il suo ruolo da insegnante fu prezioso, innovò l’insegnamento inserendo una “scuola all’aperto” dedicata alla pittura di paesaggio. Inoltre ebbe la possibilità di passare gran parte del suo tempo libero sulle sponde del Lago di Garda, iniziando una nuova fase di sperimentazione artistica tra 1905 e 1910. Il periodo si apre con opere sulla linea di Tramonto a San Vigilio (1905), che rivela l’affetto dell’artista per il carattere incolto e spontaneo di questa sponda del Lago. Luogo che gli regalerà altri nuovi spunti, dai ritratti dei pescatori locali alla resa di tramonti rosei. 

Alfredo Savini, Tramonto a San Vigilio (1905, olio su tela, 30 x 45 cm, collezione privata)

Alfredo approfittava dei mesi estivi per trasportare sulla spiaggia grandi tele e poter dipingere en plein air in località impervie. L’idea di dipingere all’aperto risale almeno alla fine del XVIII secolo. Disegni, acquerelli e schizzi ad olio realizzati sul posto servivano ai paesaggisti per realizzare in studio rifinite e dettagliate opere. Ne sono esempio i piccoli studi dei cieli inglesi di Constable. E lo sono gli stessi schizzi dei quaderni di Giacomo Savini, realizzati durante le peregrinazioni presso Gessi, sui colli bolognesi. Ma solo dagli anni ‘60 dell’800 gli artisti iniziarono a considerare come opere finite questi rapidi e imperfetti confronti con la natura. E sarà negli anni Settanta dell’Ottocento, grazie allo sviluppo dell’Impressionismo, che questa idea sfidò finalmente le asserzioni della completezza estetica e razionale. Questo movimento, fondato nel 1874, probabilmente colpì in modo particolare Alfredo Savini che decise di trarne ispirazione. Il suo stile verista, nel tempo, cambiò forma e le pennellate si fecero veloci e sommarie. Restando capaci di catturare i colori e l’essenza intimista, fuggevole, degli scenari del Garda. Questa nuova visione del reale lo portò ad utilizzare una pittura materica e priva di nero, visibile in Notturno a Panora. Nell’opera le luci che riempiono i palazzi emergono in accumuli di pittura gialla, riflettendosi poi nell’acqua. Il punto focale sono proprio i riflessi pastello che tingono le acque in primo piano. Savini dimostra di credere in un realismo simile a quello di Monet, in cui le percezioni immediate del mondo potevano essere messe in risalto, in tutta la loro freschezza. Quasi in una visione fanciullesca, che può meravigliarsi del luogo comune più naturale, dei colori tiepidi e chiari del qui ed ora.   

Potremmo quindi dire che le visioni di Giacomo e Alfredo Savini, anche se scaturite da periodi e correnti artistiche molto distanti, convergono in conclusioni affini: la natura ha una propria indipendenza, persino nei suoi scorci marginali. Attraverso la sua bellezza, essa può aiutare l’uomo ad apprezzare i lati ordinari e semplici della propria vita, che forse ne costituiscono l’essenza più preziosa.

 

Bibliografia:

L’arte dell’Ottocento, (a cura di) R. Rosenblum e H.W. Janson, Fratelli Palombi Editori, Roma 1986  

Dinastia Savini, (a cura di) Francesca Sinigaglia e Ilaria Chia. Museo Ottocento, Bologna 2024.

 

L’autrice dell’articolo è Giulia Trabalza laureanda triennale in Storia, presso l’Università di Bologna, e tirocinante al Museo Ottocento. Appassionata di storia dell’arte Contemporanea, Impressionismo e scrittura.