I vizi capitali costituiscono un’antica chiave di lettura dell’animo e del comportamento umano. Definiti come inclinazioni che allontanano l’uomo dalla virtù, non sono semplici vizi isolati, ma semi da cui germogliano altre colpe. La tradizione occidentale li ha fissati in sette figure archetipiche: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia, che nel tempo sono diventate simboli, metafore e immagini potenti, capaci di attraversare secoli di arte, filosofia e religione.

La loro individuazione risale al VI secolo per mano del monaco cristiano Evagrio Pontico (345–399), il quale identificò otto “pensieri malvagi” e i mezzi per combatterli, trasformati poi nei sette vizi capitali da papa Gregorio Magno (540– 604), il quale ne rielaborò la classificazione, accorpando la tristezza all’accidia e la vanagloria alla superbia, aggiungendo infine l’invidia. Da allora, i sette vizi capitali hanno assunto la forma che conosciamo oggi, ricoprendo un ruolo centrale nell’immaginario morale e artistico.

Una descrizione dei vizi capitali comparve già con Aristotele, che li definì “abiti del male”, ossia inclinazioni che, se ripetute, diventano abitudini capaci di deformare non solo il comportamento ma anche l’aspetto esteriore di chi le coltiva. Nella Fisiognomica, Aristotele sosteneva che l’aspetto esteriore fosse specchio dell’interiorità: lineamenti, postura ed espressioni rivelerebbero inclinazioni morali. Come scrisse negli Analitici Primi (2.27):

“è possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l’anima vengono cambiati assieme da influenze naturali […] faccio riferimento a passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali.”

Questa idea, ripresa nei secoli successivi, offrì agli artisti una base per dare un volto concreto ai vizi, incarnandoli in figure umane.

Ed è proprio questo che fece Fabio Fabbi (Bologna, 1861 – Casalecchio di Reno, 1945) nel 1895 con il suo dipinto I sette vizi capitali. Pittore e illustratore, formatosi tra Bologna e Firenze, Fabbi fu definito “l’ultimo degli orientalisti” a seguito del viaggio compiuto in Egitto del 1886, che nutrì la sua sensibilità pittorica e segnò gran parte della sua produzione.

Nel 1895, all’Esposizione di Monaco, presentò la prima versione del dipinto I sette vizi capitali (o I sette peccati mortali), oggi custodita al Museo Ottocento di Bologna, a cui fecero seguito altre due versioni che oggi fanno parte di collezioni private. L’opera ebbe un notevole successo e rimane uno dei suoi capolavori.

 

dipinto di Fabio Fabbi, I sette vizi capitali
Fabio Fabbi, I sette vizi capitali, 1895, olio su tela, 22 x 40 cm, Museo Ottocento Bologna

 

Nel dipinto, i vizi non sono idee astratte, ma personaggi in carne e ossa, schierati davanti allo spettatore come attori su un palcoscenico.

 

 

Al centro, in posizione dominante, si trova la Superbia. Volto sollevato, sguardo diretto e imperturbabile, corpo dritto. Fiera, spicca tra tutte le altre figure, suggerendo un’apparente superiorità. A differenza delle altre versioni del quadro in cui la Superbia è addobbata da gioielli, in questa versione il senso di superiorità viene interamente comunicato dalla postura della donna e dal suo sguardo.

 

dettaglio personificazione lussuria dipinto Fabbi

 

 

 

Alla sinistra del quadro invece ci guarda la Lussuria, mostrandosi senza pudore. È una ragazza dal corpo nudo, con guance arrossate e un sorriso ammiccante. Oltre alla Superbia, la Lussuria è l’unico soggetto che guarda chiaramente lo spettatore negli occhi, come a volerlo invitare ad entrare insieme a lei nel quadro.  Tutto ciò che indossa, insieme a un drappo di stoffa, è una corona di foglie, a richiamare la natura e la fertilità.

 

dettaglio personificazioni gola e accidia Fabbi

 

 

Dietro alla Lussuria, si scorge seminascosto la Gola. Tutto ciò che di lui si vede è un viso pingue che incarna l’abuso e l’eccesso, simbolo di chi ha trasformato il bisogno in voracità. Accanto, l’Accidia è impersonificata da un uomo con spalle curve e sguardo assente, viso apatico e privo di emozioni, in parte nascosto dal cappello che indossa. I toni scuri del suo abito e la sua postura chiusa trasmettono torpore morale e mancanza di slancio vitale. A differenza delle altre due versioni, qui l’Accidia è ritratta con una pipa tra le labbra, a rimarcare la mancanza di interesse e cura nei propri confronti.

 

 

 

A destra della Superbia c’è l’Invidia, con sguardo torvo, rivolto verso ciò che non può avere. Divorata dal rancore, si morde la mano e si tira la veste, incapace di contenere le proprie emozioni. In una delle versioni alternative del quadro, la donna regge in mano una serpe. Questa associazione si può ritrovare in altri quadri come “Allegoria dell’Invidia” di Giovanni Bellini, o nell’affresco dell’Invidia di Giotto all’interno della Cappella degli Scrovegni a Padova, a sottolineare come l’invidia sia un veleno interiore che consuma dall’interno

 

Al fianco dell’Invidia, piegato su se stesso e intento a stringere al petto i suoi beni materiali, c’è l’Avarizia. Come un animale che protegge il suo cibo, l’uomo tiene tra le braccia i sui beni più cari. Infine, all’angolo della composizione, avvolto da una nube di fumo, si riconosce l’Ira. Con il volto segnato dalla collera e un pugno alzato, sembra pronto a uno scontro fisico, trascinato da una passione incontrollata.  Mentre nelle altre versioni del quadro l’Ira è rappresentata in modo più nitido e definito, al pari delle altre figure, in questa versione si trova relegato sullo sfondo, avvolto da un’ombra che parte da lui e invade l’ambiente circostante, annebbiandolo e intrappolandolo nella sua rabbia.

 

 

 

 

I personaggi sono rappresentati talmente vicini da potersi quasi toccare. Sono i vizi che vivono insieme e si alimentano l’un l’altro, creando una spirale dalla quale è difficile uscire.

Fabbi è riuscito a dare corpo ed espressività ai vizi con un linguaggio figurativo immediato e teatrale. Ogni personaggio è costruito con tratti fisici e psicologici in perfetta corrispondenza con il vizio rappresentato. Il loro linguaggio silenzioso e la tensione che si percepisce nella scena fanno di quest’opera un’interpretazione intensa dei sette peccati capitali, capace di parlare con forza allo spettatore.

 

 

 


 

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA

Francesca Sinigaglia (a cura di), Guida Museo Ottocento Bologna, Pendragon, 2023

Francesca Sinigaglia, Fabio Fabbi (1861-1945). Il viaggio dell’anima, ed. Fondantico, Bologna 2021.

M.F. Ferrini, a c. di, Aristotele Fisiognomica Introduzione, traduzione, note e apparati, Milano, Bompiani, 2007 (Collana Testi a fronte, n. 103).

https://arte.cini.it/Opere/208066

https://cappellascrovegni.padovamusei.it/it/collezioni/vizi-virtu/invidia

 

Anna Pasetto

Laureata in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Bologna, attualmente iscritta al secondo anno del corso di laurea magistrale Digital Humanities and Digital Knowledge presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.