NEL CAOS, LA RICERCA DEL SENSO: IL "MOVIMENTO DEL "66"
Ho nell’anima un modello limpido, un “tutto essenziale” dove i travolgimenti che la forma subisce nella lotta con la materia sono decantati in un’atmosfera compatta e la forma risale con un movimento che tutto raccoglie e che tutto ha composto […], Lea Colliva a Lina Canè, Monzuno, 24 luglio 1963, in Corrispondenza 1, 1.24, Lina Canè, Archivio Bertocchi – Colliva, Monzuno
Lea Colliva può essere descritta in vari modi, ma certamente non come artista “immobile”: la sua arte, come la sua identità, si incontrano e si scontrano in un dinamismo continuo che sembra non avere mai fine.
Dopo anni a ritrarre principalmente paesaggi, come esponente dell’Ultimo Naturalismo, frequentatrice dello studio di Flavio Bertelli (1865-1941) e, insieme a lui e ad altri artisti, ri-scopritrice di Luigi Bertelli (1833-1916), padre di Flavio, morto nella dimenticanza più completa, la Colliva inizia a mutare stile ed espressione, specialmente nel 1956, all’indomani della morte del cognato Nino Bertocchi (1900-1956) [1], che, forse, un po’ la influenzava nella scelta delle opere da esporre in un senso più tradizionalista e “schematico”.
Gli anni Sessanta definiranno una nuova Lea, come dimostra la grandissima mole di lettere che l’artista scambiò con la scrittrice Lina Cané, in una corrispondenza che durò quasi trent’anni.
Le lettere mostrano tutta la tensione della Colliva, la voglia di esprimere ciò che, nel crescente isolamento che ella si impone di mantenere, sta maturando nel suo io, ma anche la difficoltà di imprigionare un dinamismo dirompente nella gabbia limitante del linguaggio.
Nel 1963 divenne professoressa all’Accademia di Belle Arti: da allora, la sua vita si divise tra i mesi invernali, passati all’Accademia, e i mesi estivi, passati a Monzuno, piccolo paese di provincia, insieme alla sorella Renata.
Il rapporto con il dipingere non fu semplice e definito fin da subito: inizialmente non riusciva pienamente a mettere a fuoco le sue sensazioni: “Paesaggio intorno a me non ne vedo […] soprattutto adesso che di vedere avrei bisogno” [2], scrive a Lina. E prorompe e si impone, nelle sue parole, il dramma interiore conseguente alla mancanza di ispirazione, la sofferenza nel non riuscire a vedere, ma non nel senso ‘etimologico’ del termine: ciò che soffre è la mancanza di una visione che trascenda la semplice sensazione e si trasformi, quasi istantaneamente, in personale e unica percezione della realtà.
Ma Lea muta quasi subito atteggiamento, sente che qualcosa sta cambiando, si emoziona per un raggio di luce, per una giornata di sole che le permette di vedere dettagli mai “messi a fuoco” finora; intuisce che la forma è una dimensione spirituale, che può permettere l’accesso all’agognata visione, se accompagnata dalla giusta predisposizione: “Mai come adesso ho sentito tanta reverente emozione per il tempo e il modo del suo avverarsi” [3], ella scrive a Lina, dimostrando che il rapporto con l’Arte sta mutando, in senso sempre più intimo, totalizzante. Lea sta trovando mezzi per esprimersi, per rapportarsi al cosmo e, mediante essi, forse, sta rintracciando anche la parte più vera del Sé. Tant’è che da qui in poi specificherà sempre l’armonia che lega lei e il suo lavoro, quella serena predisposizione che, nella fase di transizione, quella delle esposizioni internazionali, sembrava sempre in potenza ma mai in atto nelle sue opere, che, seppur bellissime, erano cariche di una tonalità quasi orrorifica. Questo periodo, così produttivo, è straordinario: osservando i suoi dipinti, seguendo il percorso che condurrà alla definizione finale della sua poetica, si percepisce tutta la sua tensione, la crescente emozione dello scoprirsi, l’impatto positivo della Luce e del Colore che deriva dall’osservazione del vero: si veda, ad esempio, Tramonto inquietante (1963).

L’impatto visivo della pennellata materica e del colore prorompente è straordinario, vitale: sembra quasi di vedere rappresentato, sotto forma di un paesaggio, il vorticoso incedere dei pensieri nella mente dell’artista.
Ma, dopo il 1965, anno fondamentale in cui la Colliva, come scrive alla sorella Renata, dipinge dal vero e si sente produttiva, nuova, è nel 1966 che ella giunge a definirsi davvero, o, meglio, a definire ciò che la muove, il senso della sua ricerca, in quello che ella stessa definisce Movimento del ‘66. Questo Lea condivide con Lina:
Forma, presenza” Sono anche le mie conclusioni e con le stesse parole sue, poi anche il “vado verso le origini” che ha tutto il fascino di una primitività (non voglio dire primitivismo) che io avevo già scoperto in altri tempi. Questo spazio, bisogna subito aggiungere, che è uno spazio di presenze, uno spazio quasi tutto in primo piano, ma che ha la sua profondità nell’essere fatto non soltanto di cose, ma di sostanza di cose: è forma, esso stesso, è evento, esso stesso, dunque ha una sua interna e sostanziale prospettiva non limitata. […] [4].
Come è evidente, nel citare le due parole fondamentali della sua visione, ‘forma’ e ‘presenza’, rimanda a qualcun altro, allorché afferma di usare le stesse parole sue: molto probabilmente, infatti, la Colliva ha tratto ispirazione dalla lettura di Hans-Georg Gadamer (1900-2002) e in particolare dalla sua visione dell’opera d’arte come presenza.
Nella sua opera principale, Verità e metodo (1960), il filosofo, infatti, afferma che la fruizione dell’opera è un’esperienza dinamica di verità. Osservare un’opera d’arte è come assistere a un evento: l’opera è una presenza dinamica, che entra in contatto con lo spettatore e lo modifica.
L’artisticità di un’opera, inoltre, consiste nel dare forma a un contenuto, ma forma e contenuto non devono avere l’una un ruolo preminente sull’altro, o viceversa: è dall’equilibrio di entrambi che si sprigiona la scintilla di verità.
Non sappiamo se Lea Colliva abbia letto la nota opera di Gadamer, pubblicata, tra l’altro, proprio all’inizio degli anni Sessanta: è evidente, però, che nella sua opera più matura l’eventualità dell’opera d’arte sia visibile in tutta la sua consistenza e ‘prepotenza’. Man mano, infatti, che la Colliva definisce una visione del cosmo, dal ‘66 in poi, i suoi dipinti si caricano di una capacità comunicativa eccezionale (del resto, per Gadamer, l’arte è in tutto e per tutto un linguaggio). Si veda, ad esempio, Ombrelloni all’Ospitale (1968): in esso il soggetto è visibile ma sembra ‘mischiarsi’ nelle pennellate materiche del contorno, un vortice di colore che coinvolge intimamente lo spettatore, una vera e propria ‘esperienza’ che nessuno riesce a descrivere con parole adeguate perché a parlare, come accade spesso, nel caso della Colliva, anche lei impegnata continuamente e strenuamente nella ricerca di descrizioni adeguate, a parlare è soprattutto l’opera.

Ma nella prosecuzione della sua opera Lea rende la forma ancora più intima: essa diviene forma di contenuto, non più di oggetto; un contenuto intimo e personale, potente e luminoso come è la poetica dell’artista nei suoi ultimi anni di vita: “Gli esseri sono legati insieme: causa gli uni agli altri di amore e di dolore. Questo (l’ho saputo soltanto da poco tempo) è il significato delle tempere e di tutto il lavoro di questi ultimi tre anni. E’ un incontro di tensione estreme diversamente umane in una dimensione in cui tutti i contenuti si equivalgono […]” [5].
Finalmente Lea sembra vedere davvero l’insita armonia del cosmo, e farla propria: si fa più materico il colore, la luce più intensa, la pennellata più appassionata e i nomi delle opere divengono quasi ‘evanescenti’ (Accadimenti, Idillio, Anelito…).
Si osservano queste sue ultime opere e si percepisce la tensione alla vita dell’ultima Lea, la fierezza di chi sa di essersi liberata da qualunque giogo e qualunque imitazione.
Gli sbuffi un po’ “eterei” che riempiono le sue opere sono un inno all’esistenza: «Non piangete: questa è la vita. Lasciate le porte aperte, tutte le porte aperte perché essa irrompa e avvengano le solenni, le drammatiche, le rivelatrici e anche le effimere sue composizioni», così ella scrive, non rassegnata, ma speranzosa, a Lina [6].
E così la forma, come l’artista, da atto diviene potenza, viene in essere, come forma di se stessa, non di qualcos’altro; come contorni che, al pari di tante idee, si librano in un aere indefinito, materico e ‘mentale’ al tempo stesso.
Lea Colliva, Idillio, 1969, olio su tela, 50,5×45 cm, Pinacoteca Bertocchi-Colliva
Lea Colliva, Accadimenti, 1969, olio su tela, 60×65 cm, Pinacoteca Bertocchi-Colliva
Lea Colliva, Anelito, 1970, olio e tempera su tela, Pinacoteca Bertocchi-Colliva
Chiara Dello Iacovo
Studentessa iscritta al terzo anno alla facoltà di Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.