
Il saggio di Edward Said, intitolato Orientalismo e pubblicato nel 1978 propone una lucida e disincantata analisi del mondo orientale in rapporto con quello occidentale, o meglio, della supposta attitudine di dominio e conquista da parte dell’Occidente nei confronti dell’Oriente, visto come mondo sconosciuto, come terra da essenzializzare, per poter essere ridotta ad oggetto di conquista, studio e rappresentazione. Secondo tale prospettiva, la società occidentale è e deve essere riconosciuta come razionale, flessibile, sviluppata, superiore, in contrapposizione alla presunta staticità di quella orientale che le fa da simbolico contraltare e che viene dunque filtrata dalla prospettiva europea. Nella storia dell’arte il termine orientalismo fa riferimento all’insieme delle opere degli artisti occidentali che nel corso del diciannovesimo secolo si specializzano nella raffigurazione, da un lato più realista e dunque ancorata alla realtà tangibile che ha fatto da sfondo ai viaggi d’esplorazione e studio in Medio Oriente, Nord Africa e Asia Occidentale; dall’altra più “visionaria”, cioè fantasiosa e immaginifica, frutto di, se così potremmo definirlo, un “itinerarium mentis”, tutto elaborato senza mai lasciare lo studio. L’Orientalismo non fu mai un vero e proprio movimento organizzato, un manifesto o una scuola formale, bensì un orientamento, una tendenza tematica sviluppatasi soprattutto nel corso del XIX secolo, tendenza trasversale rispetto a diversi stili e correnti, come l’accademismo, il romanticismo o il realismo. Le espansioni coloniali rappresentano la spinta propulsiva più importante per l’emergere e il rafforzarsi dell’interesse per l’esotico; in questa ottica l’orientalismo può esser letto anche come strumento ideologico che vede l’Altro come affascinante, ma inferiore e decadente, ridotto, come detto prima, ad una visione eurocentrica e coloniale.
Pittori francesi come Eugène Delacroix (1798–1863) e Jean-Léon Gérôme (1824-1904) sono ampiamente considerati come i principali esponenti della tendenza orientalista. Inoltre, a partire dal celebre Bagno Turco di Jean Auguste Dominique Ingres le donne dell’harem iniziarono ad essere immortalate come protagoniste dei dipinti. Nel contesto italiano gli artisti che presero parte a più o meno importanti missioni diplomatiche ebbero modo di esperire lo sconosciuto mondo orientale e, dunque, di documentare i loro viaggi. Tra questi, vengono annoverati Alberto Pasini, Fausto Zonaro e, in particolare, i fratelli Alberto e Fabio Fabbi che, dopo un viaggio ad Alessandria d’Egitto nel 1886, si innamorarono dei soggetti esotici iniziando a farsi conoscere in tutto il mondo. Attraverso una serie di relazioni significative con le gallerie di New York e i mercati londinesi, Fabio Fabbi, dopo la morte di Alberto, riscosse un successo di dimensioni internazionali, per poi essere definito e riconosciuto come l’Ultimo degli Orientalisti. Il Diario di viaggio del 1886 di Fabio Fabbi, taccuino che documenta e che oggi ci testimonia delle numerose scoperte fatte in prima persona dall’artista in terra egiziana, può essere considerato in termini cronologici il primo e più significativo tassello che circonda la figura dell’artista di un’aura mitica. Fabio Fabbi infatti raggiunse ad Alessandria suo fratello Alberto per una intensa peregrinazione attraverso le misteriose pieghe del Mediterraneo. La sua meta non fu scelta casualmente: Alessandria d’Egitto, patria, lo ricordiamo, degli illustri letterati del XIX secolo, Marinetti e Ungaretti, fu bombardata nel 1882 e poi dichiarata protettorato degli Inglesi, rimanendo sotto il loro dominio fino al 1922 e godendo di una importante opera di riqualificazione artistica e letteraria grazie all’approdo di numerose comunità europee. La città finì inoltre per divenire, a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento, oggetto di una visione dichiaratamente imperialista da parte di queste ultime. Il taccuino personale di Fabbi è un documento prezioso che include testimonianze perfino di natura artistica: egli infatti appuntò con grande meticolosità ogni dettaglio che più lo colpiva, come i visi delle odalische al mercato o gli uomini arabi sulla strada, particolari che ci mostrano quanto la vita, le abitudini e i caratteri di quel popolo sedimentarono in modo indelebile nell’animo del giovane artista. Tra questi, vi sono volti che egli stesso fotografò per poi riprodurli di sua mano sulla carta, attraverso bozzetti che riuscì ad eseguire, pur con difficoltà anche in treno, e che andarono a confluire nell’album intitolato Ricordi in Egitto, contenente in tutto sedici illustrazioni.

Nelle fotografie stesse possiamo notare come sia stata sapientemente immortalata una “diversa” umanità, pregna di valori fuori dall’ordinario, che contribuirono ad alimentare pulsioni sessuali e sentimentali incontrollate, fungendo dunque da vero e proprio specchio dell’inconscio occidentale, specchio che mostra e scardina al tempo stesso la mediocrità e il ben pensare tipico della borghesia occidentale ottocentesca. L’Oriente finì per divenire il polo ideale in cui sedimentò progressivamente quella misteriosa spinta ad un vitalismo eroico ed erotico sconfinante nella lussuria, che in Europa assumeva la forma del respinto, del negato, del nuovo che affascina e spaventa a un tempo, in cui la libertà diveniva il prodotto fondamentale della scoperta e della conoscenza. Il viaggio in Egitto fu fondamentale per il maturare e il progressivo consolidarsi della maestria dell’artista nel trasmettere in pittura quello straordinario insieme di visioni ed emozioni che gli lasciò l’Oriente, il cui fascino rimase impresso nel suo animo fino alla fine della sua vita e carriera artistica. Esso modificò infatti in modo piuttosto radicale la sua stessa visione interiore, facendolo infatti in poco tempo passare da scultura a pittura. Alessandria d’Egitto dunque costituì per Fabbi e per chi, come lui, rimase affascinato dai suoi tesori, una città idealmente depositaria di un nuovo fare artistico, che mescolava al gusto orientalista i movimenti artistici europei del Realismo, dell’Impressionismo e infine dell’Art Nouveau.

Tra i vari capolavori artistici che attestano ed esplorano la sua vena orientalista, l’opera intitolata La stanza del piacere può essere posta a suggello del modo di fare arte di Fabio Fabbi e testimonia dello zelo con cui il suo genio artistico coglieva e rappresentava in pittura ogni dettaglio che più lo colpiva del mondo orientale. Nel quadro in questione, infatti, non possono sfuggire all’attenzione dello spettatore i particolari luccicanti e sgargianti dei gioielli che adornano la schiava di colore a destra, il vistoso tappeto di pelle di leopardo su cui è distesa la donna bianca, e che sembra divenire simbolo di sfrenata lussuria. O, ancora, una brocca dorata in secondo piano, che poggia su un pavimento color rosso acceso, colore che diviene, in questo caso, altamente simbolico. Entrambe le presenze in primo piano dominano la scena: la ragazza di colore a destra sembra star suonando con uno strumento musicale una melodia, con cui deliziare la donna europea, bianca, distesa in modo disinibito e libero sul pavimento. Tuttavia, ciò che più affascina in quest’opera è il velato mistero che sembra celare e schiudere ciascuno dei due soggetti, quasi come se stessero comunicando tra loro, seppur simbolicamente. La ragazza di colore, quindi, diviene rimando allo sconosciuto mondo orientale, da cui si è attratti e sgomentati allo stesso tempo, mondo che diviene oggetto di ricerca e scoperta proprio in questo particolare periodo storico, in cui i viaggi di esplorazione contribuiscono alla conoscenza progressiva di valori e di una dimensione geografica altri, diversi dalla cultura europea, e che stimolano l’immaginario comune verso nuovi orizzonti. Lo sguardo languido e ammaliatore della donna bianca, invece, sembra rapirci come per farci vivere in prima persona l’inquietante atmosfera della scena; sguardo che, ancora una volta, sembra confermare il dominio indiscusso del mondo occidentale, e ricordare le sue recenti conquiste coloniali. Fabio Fabbi sembra dunque lasciarci, o meglio, lasciare lo spettatore ottocentesco con un inquietante interrogativo, che finisce per coinvolgere l’intero mondo occidentale del tempo: una silenziosa, apparentemente immobile, sfida sembra animare la scena generale, e, a seconda di dove lo sguardo dell’osservatore focalizza la sua attenzione, una delle due ermetiche energie, di cui le due presenze sono il rimando allegorico, energie depositarie di due culture differenti e lontane tra loro, sembra prevalere sull’altra di volta in volta: da un lato, lo specchio dell’inconscio occidentale, il proibito che ammalia e intimorisce a un tempo con i suoi lontani profumi e le sue ignote melodie; dall’altro la supremazia europea, il suo tradizionale bagaglio di valori e il suo predominio sull’Oriente.

Se l’Orientalismo ha rappresentato, per molti artisti europei dell’Ottocento, un’esplorazione dell’Altro e una evasione dalla realtà attraverso l’immaginario esotico, anche il Simbolismo, in un certo senso, si muove nella stessa direzione: quella di un’arte che rifiuta il reale e il tangibile come tali, per rivolgersi invece all’esplorazione di dimensioni altre, quali il mistero, l’invisibile, l’onirico, la spiritualità. Il Simbolismo nasce e si sviluppa nella seconda metà del XIX secolo, in un sottofondo storico e culturale segnato da profondi mutamenti sociali: la seconda rivoluzione industriale spiana la strada al progresso scientifico e tecnologico, che influenza ed alimenta nuove idee non soltanto da un punto di vista teorico, ma anche pratico, facilitando così l’avvento di nuove ingegnose creazioni e apportando una incommensurabile serie di vantaggi nella società e nella vita quotidiana. Dietro la facciata grandiosa del progresso, tuttavia, si cela un silente sentimento di alienazione, accresciuto proprio dalla messa in discussione dei valori e dal cambiamento radicale del profilo e del funzionamento della metropoli moderna. Il Decadentismo, sviluppo ulteriore e ramo del Simbolismo, accenta i suoi aspetti più esistenziali e patologici, come il moderno sentimento di noia e angoscia, dovuti alla progressiva dissociazione dell’uomo moderno dal reale e dall’autentico.

Entrambi i movimenti, pur con modalità differenti, si pongono in contrapposizione al positivismo e al razionalismo scientifico dell’epoca, e cercano nell’Altrove, geografico e interiore, una via di fuga dal mondo moderno, dalla metropoli alienante, dalla civiltà industrializzata, spesso percepita come arida e priva di significato. E’ proprio in questo contesto che si inserisce il Simbolismo, un movimento che, come l’Orientalismo, rifiuta la rappresentazione mimetica del reale, e lo carica di significati e simboli che appartengono al lato allusivo, evocativo e trascendente dell’arte e della Natura. Tra i maggiori artisti di questa corrente si segnalano i francesi Gustave Moreau e Odilon Redon. In questo contesto si inseriscono inoltre il pittore bolognese Mario de Maria (1852-1924) e Augusto Sezanne (1856-1935), architetto, decoratore e pittore, entrambi tra i fondatori dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia.
Nei suoi scritti lo storico dell’arte Angelo Conti sosteneva che un quadro non deve dimostrare, ma soltanto mostrare una cosa che l’artista riesce a cogliere nel suo spirito. All’osservazione della natura quindi l’artista fa seguire uno studio interiore e la trasfigurazione su tela di immagini che, attraverso tagli prospettici e giochi chiaroscurali, facciano emergere gli aspetti sovrannaturali, spirituali, della realtà. Lo stesso Conti intuì come, in particolare tenendo presente le opere pittoriche di Mario de Maria, pittore, fotografo disegnatore e perfino architetto di inclinazione simbolista, l’ombra divenisse metafora del pensiero, dell’Idea, affermando che “la luce, il mistero dell’ombra, la magia del colore gli offrivano mezzi sempre diversi per esprimere la sua emozione, per dare un linguaggio alla ricchezza della sua fantasia”.
Al contrario di quanto pensavano i pittori futuristi, che si fermarono nella comprensione della pittura dell’artista al suo presunto tardo romanticismo, de Maria può a buon diritto essere annoverato e compreso tra quei pittori che alla fine dell’Ottocento si concentrano in creazioni artistiche che prendono in considerazione il reale per poi trasfigurarlo: lo si rappresenta non per come appare ad un primo sguardo, così com’è, ma lo si carica di quelle che il poeta francese Baudelaire avrebbe definito “corrispondenze metafisiche”, senza per questo annullare il tangibile, in quanto molla propulsiva al rimando metaforico. Come Anna Mazzanti ha sottolineato con una illuminante riflessione, si tratta di “trasfigurazioni e animazioni della natura che la scienza di fine ottocento suggeriva alla poesia e all’arte”. Infatti, a differenza dei pittori paesaggisti, De Maria non contempla solo il soggetto in sé rappresentato, ma scova a fondo, alla ricerca di una verità più profonda, più archetipica. In questo senso il paesaggio diviene agente e strumento al tempo stesso per rivivere un passato mitico ed eroico, che offra all’uomo moderno una sorprendente fuga dal reale e dalla mediocrità del presente.
De Maria mostra preferenza per luoghi in cui possa instaurarsi un eloquente dialogo tra l’uomo e la dimensione naturale, tra le opere umane e il paesaggio circostante o in sottofondo. Se nei quadri dedicati alla città di Roma e dintorni egli si sofferma sul recupero dell’antichità classica, pur con un senso di disfacimento e di abbandono che domina sottilmente le varie scene, in seguito i soggetti dipinti con realismo negli anni Ottanta divengono progressivamente specchio di una visione innovativa e di una dimensione soprattutto evocativa, intimista e simbolista, appartata dal diffuso verismo positivista.

Ma, come spiega la stessa Mazzanti, Mario de Maria è anche altro: una figura esemplare in cui confluiscono diverse forme di espressione umanistiche, dalle scienze occulte alle religioni, dalle culture orientali alla musica più visionaria, alle pratiche scientifiche. La sua, dunque, è una forma peculiare di eclettismo artistico che attesta come sia proprio questo il momento storico in cui una florida e vicendevole corrispondenza tra immagini e parole renda l’artista, che ritrae la natura, “homo additus naturae”, ponendosi non solo come oggetto e parte integrante della natura stessa, ma anche come soggetto che, in quanto fuso con essa, la trasforma e la arricchisce di significato e interpretazione.
“Insomma questi prigionieri considererebbero la verità come nient’altro che le ombre degli oggetti artificiali.”(da Platone, Repubblica): la pittura del Pictor può considerarsi un correlativo oggettivo, una manifestazione concreta e visiva delle argomentazioni di Platone, il cui approfondimento filosofico verrà poi elaborato, abbracciando una più ampia prospettiva, dal filosofo tedesco Artur Schopenauer. Nel celebre mito della caverna lo spettatore, dunque, viene paragonato all’uomo prigioniero nella caverna, che mostrava ai suoi abitanti solo l’ombra delle cose. Nell’incipit de Il mondo come volontà e rappresentazione, il filosofo ottocentesco recita: “Il mondo è mia rappresentazione: questa è una verità che vale per qualsiasi essere vivente e pensante, sebbene solamente l’uomo possa averne una coscienza riflessa e astratta”.
Scoprire quindi una verità oggettiva, celata dietro allo schopenaueriano velo di Maya, non limitata da una percezione individuale, diviene l’obiettivo ultimo di de Maria, che non si accontenta dell’oggetto naturalistico in sé, ma del raggiungimento di una vera e propria realtà ontologica; in questo senso i colori, le luci e le sfumature che popolano i suo quadri divengono rivelatori di quella realtà autentica che i nostri sensi non possono percepire.
Per il 1909, in occasione della grande personale presso la Biennale di Venezia dedicata al pittore, De Maria espose Il meriggio di un fauno (Sinfonia bionda) di proprietà del Museo Ottocento di Bologna, allusivo all’Après-Midi d’un faune di Claude Debussy, a sua volta ispirato dal poema di Stèphane Mallarmè del 1865. In questa straordinaria tela possiamo notare tutta l’intensità di due forze, fisiche e spirituali insieme, che si scontrano e si incontrano fino a condensare una esplosiva tensione in un solo momento, apparentemente reso immobile dalla rappresentazione pittorica della scena, ma carico di significati profondamente evocativi. Nell’estrema sinistra possiamo osservare la figura mitologica del fauno, intento a direzionare verso sé, quasi in modo brusco e violento, una ninfa, simbolo di pudore e purezza. Il fauno si carica di valenze simboliche significative, atte a rappresentare l’impulso maschile predatorio, o, più in generale, la volontà dionisiaca ferina e disinibita, intimamente partecipe della natura selvaggia, cruda, animalesca. Egli è rappresentato in comunione fusionale, o in procinto di fusione, con il suo lato opposto, la parte gentile, fertile e femminile della natura stessa, portatrice di una sofisticata grazia tipicamente muliebre, evidenziata dalla scontrosa eppure delicata ritrosia con cui la ninfa sembra lasciarsi coinvolgere dall’abbraccio divoratore del fauno. Ed è in questo senso che la ninfa diviene invece rimando allo spirito apollineo, che funge da contraltare integrante di quello dionisiaco, come barlume di ordine, bellezza ideale e innocenza minacciata.

Il tutto si svolge ai piedi di un grande albero con rami grotteschi, che quasi sembrano animarsi nel loro intreccio. La natura non è idilliaca, ma viva, febbrile, contorta, con tonalità rosse, brune, oro e verdi autunnali che accentuano il senso di decadenza e trasformazione. Non c’è razionalità prospettica né equilibrio compositivo, ma un’esuberanza quasi orgiastica della materia pittorica, che fa dunque implicitamente intendere come la scena stessa, intesa come simbolico ritorno al primordiale, rifletta la contemporanea crisi dell’età moderna, in cui l’uomo rimane sopraffatto dalla sua stessa forza istintuale e da sconosciute pulsioni naturali che lo trascinano in un mondo oscuro. La bellezza ordinata della ninfa viene trascinata in un mondo sotterraneo, selvaggio, portatore tuttavia anche di verità e rigenerazione, come insegna Dioniso e le contemporanee teorie filosofiche di Nietzsche.
Così, tra Oriente e simbolo, tra eros e spirito, il secolo ottocentesco trova nell’arte una via per interrogare se stesso: specchio inquieto di un mondo in crisi, ma ancora assetato di bellezza e verità.
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BIBLIOGRAFIA
-Sinigaglia Francesca, Battistini Edoardo (a cura di), Fabio Fabbi (1861-1945). Il viaggio dell’anima, catalogo della mostra a Museo Ottocento Bologna, Bologna, 16 ottobre- 16 novembre 2021, Fondantico, 2021
-Sinigaglia Francesca, Maria Stella Ingino (a cura di), Guida Museo Ottocento Bologna, Pendragon, 2023
-Sinigaglia Francesca, (a cura di), Ombra Cara. Mario de Maria detto Marius Pictor (1852 – 1924), catalogo della mostra a Museo Ottocento Bologna, Bologna, 21 marzo – 9 settembre 2024, Museo Ottocento Bologna, 2024.
-https://it.wikipedia.org/wiki/Orientalismo
Veronica Valenzano